Pupi Avati, il cinema e la voglia di comunicare, attraverso i tanti film che hanno accompagnato la nostra vita.
Il regista bolognese sarà ospite domani sera al Parco Raggio di Pontenure, dove sarà proposto il suo ultimo film La seconda notte di nozze, un successo della stagione scorsa, uno dei tanti di questo regista che è entrato nel cuore della gente raccontando storie, sentimenti ed emozioni, coniugando spesso il linguaggio cinematografico con il linguaggio letterario. Perché a volte letteratura e cinema vanno a braccetto. Inevitabilmente.
"La seconda notte di nozze" è stato tratto da un romanzo scritto da lei. Dove prende l'ispirazione per queste storie?
«Il punto di partenza è sempre di carattere autobiografico: in questo caso la vicenda di mia madre, giovane vedova piacente agli inizi degli anni Cinquanta che, su suggerimento delle amiche, avrebbe dovuto in qualche modo trovare un sostituto al nostro papà che se ne era andato per sempre. E quindi venivano organizzati per lei appuntamenti con degli uomini candidati alla successione di mio padre. E lei che era una donna pudica, timida e prudente, portava sempre me a questi appuntamenti, quasi che io fossi una sorta di salvagente. In modo che nel momento del pericolo, della troppa euforia del candidato, lei aveva attraverso il bambino una via di fuga. Fortunatamente non trovò mai un sostituto a mio padre, però l'idea di una madre e di un figlio in giro per la città alla ricerca di un secondo marito mi ha ispirato. Poi naturalmente, per chi conosce il romanzo, il film è diventato ben altro: una storia ambientata nel dopoguerra, in cui la madre interpretata da Katia Ricciarelli è una donna molto problematica, forse moralmente meno rispettosa dei dettami ai quali obbediva mia madre. Il figlio, interpretato da Neri Marcorè, è diventato davvero un idiota, di una disonestà assoluta. E soprattutto il candidato al matrimonio, Antonio Albanese, che nel film dà una dimostrazione straordinaria di capacità interpretativa, è un ebete del villaggio che però si dimostra il più saggio di tutti».
Questo film ha avuto molto successo, tanto da superare nelle sale il film di Benigni. Qual è stata l'alchimia che ha determinato tanti consensi?
«Forse il fatto che il film ha in sé tante sorprese, dalla storia agli attori, scelti senza incorrere nel rischio di proporre le solite facce. C'è Neri Marcoré con Katia Ricciarelli, ci sono Angela Luce con Marisa Merlini. Quando il film è nelle sale, via via gli spettatori comunicano la loro gratitudine per le emozioni che ha dato loro. Io credo che dipenda molto da una miscela che è difficile da mettere insieme: riso, sorriso, divertimento, struggimento e commozione. Mettere insieme, rendere contigua la risata alla commozione significa in qualche modo essere vicini a quella che è la vita, l'esistere. Perché in ognuno di noi c'è un momento di depressione che fa seguito a un momento d'eccitazione. Io forse penso che La seconda notte di nozze abbia questa qualità. E poi Katia Ricciarelli è un'autentica rivelazione sotto il profilo della recitazione e della capacità di tenere lo schermo».
Le storie che lei racconta sono spesso velate dalla malinconia?
«In quest'ultimo caso c'è molto divertimento e un fondo legato alla consapevolezza che la felicità poi nella vita non esiste. Però è bello che la si persegua, si viva nella convinzione che la si possa raggiungere in qualche modo. È in questa contraddizione che io vivo e credo di essere un fedele testimone di quello che è il vivere di chiunque di noi. La felicità è qualcosa per cui ci si batte per una vita intera, una sorta di ultima meta. Ma è impossibile essere felici. Più che un luogo dell'esistenza, la felicità rappresenta una condizione dell'anima. Si è felici a tratti, per qualche attimo. Il resto è ricerca continua, spesso senza successo, io sono leopardiano dentro».
Com'è il suo rapporto con la televisione?
«Pessimo. Nel senso che la vedo come responsabile, molto più della politica, del degrado del Paese. E poi ho la sensazione che la televisione abbia in modo determinante contribuito ad accentuare la crisi del cinema dagli anni Ottanta in poi. La teledipendenza ci ha resi più asserviti, omologhi a un sistema più grande di noi, che ci controlla e che non ci appartiene. Io credo che se siamo peggiorati nei decenni lo dobbiamo moltissimo a questa proposta televisiva che incanta decine di milioni di persone ogni sera. Se un programma supera i quattro milioni d'ascolto deve preoccupare chi lo fa. Perché si entra in rapporto con una moltitudine talmente misteriosa che è inevitabilmente degradata. Purtroppo i media non fanno altro che esaltare gli ascolti, come se il numero degli ascoltatori fosse veramente sinonimo di qualità, quando sappiamo benissimo che è il contrario. Un tempo accanto all'audience c'era anche l'indice di gradimento, oggi no, viviamo nel regno della tivù spazzatura. Credo poi che dovremmo fare i conti con la fiction: Rai e Mediaset investono in questi prodotti un'enorme quantità di capitali per produrre film di dubbio valore, mi riferisco, ad esempio, alla biografia di Dalida o di Soraya».
Qual è il suo rapporto con il tempo?
«È un rapporto che si fa sempre più difficile perché avverto che si accorcia, che si abbrevia. So che la parte più straordinaria della mia vita ce l'ho tutta alle spalle. Faccio tanti film, servono ad ammazzare il tempo, a scacciare la paura del tempo che passa. Ho ancora tantissime storie da raccontare e non so se avrò il tempo sufficiente per farlo».
Progetti?
«Il 5 dicembre uscirà un mio nuovo film che s'intitola La cena per farvi conoscere, che già un po' racconta la storia. Perché una cena per far conoscere le persone che cos'è? È una cena finalizzata nei riguardi di qualcuno dei nostri amici, di qualcuno che è in crisi, solo, vedovo per fargli conoscere una signora, un'amica nostra che, a sua volta, è stata lasciata dal marito».
Gli attori?
«Sono Diego Abatantuono, Vanessa Incontrada, Ines Sastre, Violante Placido e Francesca Neri».
Un film che ha visto e che le è piaciuto in modo particolare.
«Non ho dubbi, Il regista di matrimoni di Marco Bellocchio. E' un film particolare, ben fatto, intriso di umorismo e di tristezza, intriso dei sentimenti della vita. Credo che il regista piacentino sia il padre di noi registi che ci affidiamo all'indipendenza della produzione. I pugni in tasca è stato il primo film prodotto con soli 38 milioni nel 1965 e diede la convinzione che chiunque, se in possesso di una buona tecnica e d'idee adeguate, potesse fare il cinema. Per primo, Marco Bellocchio uscì dagli schemi e diede il via a produzioni e a film che aprirono nuove strade ai giovani registi e al cinema italiano in genere. Per intenderci, Bellocchio fu l'antesignano di tutti noi, dal sottoscritto a Nanni Moretti».
Di MAURO MOLINAROLI
Il regista bolognese sarà ospite domani sera al Parco Raggio di Pontenure, dove sarà proposto il suo ultimo film La seconda notte di nozze, un successo della stagione scorsa, uno dei tanti di questo regista che è entrato nel cuore della gente raccontando storie, sentimenti ed emozioni, coniugando spesso il linguaggio cinematografico con il linguaggio letterario. Perché a volte letteratura e cinema vanno a braccetto. Inevitabilmente.
"La seconda notte di nozze" è stato tratto da un romanzo scritto da lei. Dove prende l'ispirazione per queste storie?
«Il punto di partenza è sempre di carattere autobiografico: in questo caso la vicenda di mia madre, giovane vedova piacente agli inizi degli anni Cinquanta che, su suggerimento delle amiche, avrebbe dovuto in qualche modo trovare un sostituto al nostro papà che se ne era andato per sempre. E quindi venivano organizzati per lei appuntamenti con degli uomini candidati alla successione di mio padre. E lei che era una donna pudica, timida e prudente, portava sempre me a questi appuntamenti, quasi che io fossi una sorta di salvagente. In modo che nel momento del pericolo, della troppa euforia del candidato, lei aveva attraverso il bambino una via di fuga. Fortunatamente non trovò mai un sostituto a mio padre, però l'idea di una madre e di un figlio in giro per la città alla ricerca di un secondo marito mi ha ispirato. Poi naturalmente, per chi conosce il romanzo, il film è diventato ben altro: una storia ambientata nel dopoguerra, in cui la madre interpretata da Katia Ricciarelli è una donna molto problematica, forse moralmente meno rispettosa dei dettami ai quali obbediva mia madre. Il figlio, interpretato da Neri Marcorè, è diventato davvero un idiota, di una disonestà assoluta. E soprattutto il candidato al matrimonio, Antonio Albanese, che nel film dà una dimostrazione straordinaria di capacità interpretativa, è un ebete del villaggio che però si dimostra il più saggio di tutti».
Questo film ha avuto molto successo, tanto da superare nelle sale il film di Benigni. Qual è stata l'alchimia che ha determinato tanti consensi?
«Forse il fatto che il film ha in sé tante sorprese, dalla storia agli attori, scelti senza incorrere nel rischio di proporre le solite facce. C'è Neri Marcoré con Katia Ricciarelli, ci sono Angela Luce con Marisa Merlini. Quando il film è nelle sale, via via gli spettatori comunicano la loro gratitudine per le emozioni che ha dato loro. Io credo che dipenda molto da una miscela che è difficile da mettere insieme: riso, sorriso, divertimento, struggimento e commozione. Mettere insieme, rendere contigua la risata alla commozione significa in qualche modo essere vicini a quella che è la vita, l'esistere. Perché in ognuno di noi c'è un momento di depressione che fa seguito a un momento d'eccitazione. Io forse penso che La seconda notte di nozze abbia questa qualità. E poi Katia Ricciarelli è un'autentica rivelazione sotto il profilo della recitazione e della capacità di tenere lo schermo».
Le storie che lei racconta sono spesso velate dalla malinconia?
«In quest'ultimo caso c'è molto divertimento e un fondo legato alla consapevolezza che la felicità poi nella vita non esiste. Però è bello che la si persegua, si viva nella convinzione che la si possa raggiungere in qualche modo. È in questa contraddizione che io vivo e credo di essere un fedele testimone di quello che è il vivere di chiunque di noi. La felicità è qualcosa per cui ci si batte per una vita intera, una sorta di ultima meta. Ma è impossibile essere felici. Più che un luogo dell'esistenza, la felicità rappresenta una condizione dell'anima. Si è felici a tratti, per qualche attimo. Il resto è ricerca continua, spesso senza successo, io sono leopardiano dentro».
Com'è il suo rapporto con la televisione?
«Pessimo. Nel senso che la vedo come responsabile, molto più della politica, del degrado del Paese. E poi ho la sensazione che la televisione abbia in modo determinante contribuito ad accentuare la crisi del cinema dagli anni Ottanta in poi. La teledipendenza ci ha resi più asserviti, omologhi a un sistema più grande di noi, che ci controlla e che non ci appartiene. Io credo che se siamo peggiorati nei decenni lo dobbiamo moltissimo a questa proposta televisiva che incanta decine di milioni di persone ogni sera. Se un programma supera i quattro milioni d'ascolto deve preoccupare chi lo fa. Perché si entra in rapporto con una moltitudine talmente misteriosa che è inevitabilmente degradata. Purtroppo i media non fanno altro che esaltare gli ascolti, come se il numero degli ascoltatori fosse veramente sinonimo di qualità, quando sappiamo benissimo che è il contrario. Un tempo accanto all'audience c'era anche l'indice di gradimento, oggi no, viviamo nel regno della tivù spazzatura. Credo poi che dovremmo fare i conti con la fiction: Rai e Mediaset investono in questi prodotti un'enorme quantità di capitali per produrre film di dubbio valore, mi riferisco, ad esempio, alla biografia di Dalida o di Soraya».
Qual è il suo rapporto con il tempo?
«È un rapporto che si fa sempre più difficile perché avverto che si accorcia, che si abbrevia. So che la parte più straordinaria della mia vita ce l'ho tutta alle spalle. Faccio tanti film, servono ad ammazzare il tempo, a scacciare la paura del tempo che passa. Ho ancora tantissime storie da raccontare e non so se avrò il tempo sufficiente per farlo».
Progetti?
«Il 5 dicembre uscirà un mio nuovo film che s'intitola La cena per farvi conoscere, che già un po' racconta la storia. Perché una cena per far conoscere le persone che cos'è? È una cena finalizzata nei riguardi di qualcuno dei nostri amici, di qualcuno che è in crisi, solo, vedovo per fargli conoscere una signora, un'amica nostra che, a sua volta, è stata lasciata dal marito».
Gli attori?
«Sono Diego Abatantuono, Vanessa Incontrada, Ines Sastre, Violante Placido e Francesca Neri».
Un film che ha visto e che le è piaciuto in modo particolare.
«Non ho dubbi, Il regista di matrimoni di Marco Bellocchio. E' un film particolare, ben fatto, intriso di umorismo e di tristezza, intriso dei sentimenti della vita. Credo che il regista piacentino sia il padre di noi registi che ci affidiamo all'indipendenza della produzione. I pugni in tasca è stato il primo film prodotto con soli 38 milioni nel 1965 e diede la convinzione che chiunque, se in possesso di una buona tecnica e d'idee adeguate, potesse fare il cinema. Per primo, Marco Bellocchio uscì dagli schemi e diede il via a produzioni e a film che aprirono nuove strade ai giovani registi e al cinema italiano in genere. Per intenderci, Bellocchio fu l'antesignano di tutti noi, dal sottoscritto a Nanni Moretti».
Di MAURO MOLINAROLI